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Un giorno, passati i sessanta, mi è venuta voglia di seguire un corso di scrittura creativa. Avevo passata la vita di fronte al foglio di carta, mai dietro. Quelli che trasporto sul mio blog Lapis Haematites sono gli esercizi in classe e a casa seguiti da Antonella Iadicicco. Sono le aperture verso mondi inesistenti, a volte tanto vicini altre così lontani. Che piacevole fatica aprire i varchi attraverso i quali prendono forma luci, suoni, odori, persone, fatti. Come in un diario lascio qui i miei viaggi. Se qualcuno tra i lettori saprà farli entrare in se per pochi minuti, sarà mio piacere aver regalato piccole emozioni.

mercoledì 7 ottobre 2020

Notizie utili sulla pandemia di 100 anni fa...

 Scrivo ad Ottobre 2020, alla fine di una estate molto "libera" che seguiva un primo periodo di lockdown. In questi giorni la curva dei contagi si rialza ed è ipotizzabile una sciagurata  nuova chiusura.

In tutto questo la mia curiosità cade sulla distanza tra le apparenze e la sostanza. Distanza alla quale certo siamo un po' abituati... La sostanza è la pandemia, l'apparenza è come la percepisco io, l'uomo comune. 

Abbiamo difficoltà a vivere nelle difficoltà, e come non essere d'accordo, quindi, e qui la storia si complica,  fuggiamo in un mondo fantastico alla prima occasione, rischiando grosso. Un esempio? Piove forte ma io ho fretto e vado veloce con la macchina. Lo so che piove, so anche che la distanza di frenata è più lunga, che la strada è viscida, tuttavia, fidando su una male interpretata nozione di normalità, non modifico le mie abitudini. Anzi, dal momento che sono in ritardo, accelero. Creo una situazione di pericolo per me e gli altri.

Torniamo a bomba. Abbiamo vissuto il famigerato lockdown, due mesi chiusi a casa a cui abbiamo risposto aprendo un ventaglio molto ampio di reazioni, dalle più negative a quelle positive. Abbiamo dovuto reinventare il nostro tempo, per molti un trauma. La percezione di una strisciante dittatura si è fatta sentire in vari strati sociali: "il governo impedisce di vivere la mia vita liberamente". Tanto è vero che appena la restrizione è caduta abbiamo vissuto una estate...normale. Niente mascherina, niente guanti, niente distanziamento. La pandemia non esiste, non è mai esistita...

Di fronte a qualcosa di eccessivamente grande e/o traumatica scatta la rimozione, una sorta di autodifesa. Mi ricordano le scene di felice isteria al termine delle guerre ad esempio. Milioni di morti fino a quel giorno ma sono pronto a ballare in strada per lo scampato pericolo.

Ed allora voglio fare una operazione impopolare, voglio andare a guardare qualche cronaca e storia della grande pandemia del '900: la Spagnola che da sola uccise un numero imprecisato di persone tra i 50 ed i 100 (!) milioni... Perché? Per il fatto che ci sono interessanti analogie. 


Il primo impatto è straniante: si trovano centinaia di foto d'epoca dove la prevenzione è la stessa attuata oggi, la mascherina. C'è un cartello della città di Milano che indica le stesse misure igieniche odierne!


Cominciamo con Arnaldo Benini sul Sole 24Ore ..."la Great Pandemic in poco più di un anno uccise più soldati americani che la guerra. Essa infettò un terzo dell’umanità, che allora contava circa un miliardo e settecento milioni di persone, e, in tre ondate, dal febbraio-marzo 1918 alla primavera del 1919, ne uccise circa 100 milioni, il maggior cataclisma demografico di tutti i tempi. Esso si aggiunse ai 15 milioni di morti a causa della guerra e a quelli d’infezioni ricorrenti o croniche come Tbc (di cui, negli ultimi mesi della guerra, solo in Austria morirono 35mila persone) colera, malaria, sifilide, tifo, morbillo"....."La divulgatrice scientifica Laura Spinney, collaboratrice dell’Economist, tratta magistralmente la pandemia nel contesto economico, militare, religioso, della scienza e delle idee delle aree colpite. Ha buone ragioni per sostenere che quella strage, che si spense spontaneamente quasi ovunque nel 1920, dopo che, durante la seconda ondata nell’autunno del 1918, aveva fatto temere l’estinzione dell’umanità, ha cambiato il mondo. Il riaggiustamento sociale dopo simili disastri è sempre impervio e doloroso. Basti pensare alla situazione degli innumerevoli orfani. In Norvegia, ad esempio, per 6 anni dopo la fine della pandemia ci furono sette volte più ricoveri per disturbi mentali di prima. La pandemia dimostrò che l’umanità può essere esposta a minacce biologiche immense dalle quali - se non è preparata - non si può difendere"...


La prima pagina di The Seattle Daily Times del 1918 ricorda non poco i giornali odierni.

Riccardo Michelucci, Avvenire, ricorda come anche persone che segnavano la loro epoca in vari campi furono vittime della pandemia ed accende un riflettore sulla domanda: perché i libri di storia non ricordano questa terribile malattia di inizio secolo scorso?
..."Guillaume Apollinaire tornò dalle trincee della Prima guerra mondiale con una grave ferita alla tempia. Colpito dai frammenti di un proiettile di artiglieria, riuscì a salvarsi grazie a un delicato intervento chirurgico. Il faro dell’avanguardia letteraria francese sopravvisse al «grande spettacolo della guerra » – come lo definì lui – ma non ebbe alcuno scampo di fronte all’influenza spagnola, che di lì a poco lo uccise a soli 38 anni. Molti illustri artisti e intellettuali dell’epoca avrebbero condiviso la sua stessa fine. Anche Egon Schiele, Max Weber ed Edmond Rostand (l’autore di Cyrano de Bergerac) risultano tra le vittime della devastante calamità naturale che tra il 1918 e il 1920 colpì un abitante su tre del pianeta, causando la morte di decine di milioni di persone. Ma nonostante l’entità del fenomeno, le conseguenze dell’influenza “spagnola” che si diffuse su scala mondiale esattamente un secolo fa sono rimaste a lungo in ombra, offuscate dalla devastazione della Prima guerra mondiale e relegate a un ruolo secondario nei libri di storia."...
..."In occasione del centenario di un evento epocale ma ancora curiosamente misconosciuto della nostra storia recente, la giornalista scientifica inglese Laura Spinney ha dato alle stampe 1918, l’influenza spagnola. La pandemia che cambiò il mondo (Marsilio), un libro a metà tra il saggio e la cronaca giornalistica che inquadra il fenomeno da un punto di vista storico, scientifico e culturale alla luce degli studi più recenti nei campi della virologia, dell’epidemiologia e della psicologia. Facendo innanzitutto notare che su quella immane catastrofe è sceso un inspiegabile oblio collettivo. Eppure, spiega Spinney la pandemia ha di fatto riconfigurato la popolazione umana più radicalmente di qualunque altro evento successivo alla peste nera. Ha influito sul corso della Prima guerra mondiale e, verosimilmente, ha contribuito allo scoppio della Seconda. Ha avvicinato l’India all’indipendenza e il Sudafrica all’apartheid, ha stimolato la crescita dell’assistenza sanitaria nazionale e della medicina alternativa, l’amore per le attività all’aria aperta e la passione per lo sport ed è in parte responsabile dell’ossessione degli artisti del XX secolo per le infinite fragilità del corpo umano."
..."La virulenza della pandemia scatenò però una serie di comportamenti a metà tra il tragico e il bizzarro. In alcuni paesi si diffuse la convinzione che la malattia fosse neutralizzata dall’alcol, facendo aumentare vertiginosamente i casi di alcolismo. In Cile si dette la colpa alle classi più povere arrivando a incendiare le case nei villaggi più derelitti del paese, creando di conseguenza un’ondata di profughi che accentuò la diffusione dell’influenza. A Odessa, in Ucraina, la gente inscenò rituali religiosi arcaici per allontanare il flagello mentre in Sudafrica e non soltanto lì, le persone di un colore iniziarono a incolpare quelle dell’altro. I missionari cristiani furono invece spesso gli unici a portare sollievo nelle zone più remote della Cina, dove all’inizio del 1918 si erano registrati i primi focolai a livello mondiale.

Complessivamente, l’influenza spagnola uccise circa cento milioni di persone, un numero di vittime superiore alla somma di entrambe le guerre mondiali. Oggi sappiamo che il virus responsabile della pandemia era di origine aviaria, proprio come quello che si verificò alcuni anni fa nel sudest asiatico. "






Sempre seguendo le tracce del saggio di Laura Spinney, Paolo Mieli sul Corriere scrive:
..."Per strano che possa apparire le prime tracce di questo malanno, non si trovano in Spagna, bensì negli Stati Uniti. Dove? La mattina del 4 marzo 1918 il cuoco militare Alber Gitchell si presentò all’infermeria di Camp Funston, in Kansas, con «mal di gola, febbre e mal di testa». All’ora di pranzo l’infermeria si trovò a gestire più di cento casi simili, e nelle settimane successive il numero dei malati «crebbe a tal punto che il capo ufficiale medico del campo fu costretto a requisire un hangar per sistemarli tutti». Metaforicamente parlando, afferma la Spinney, «cinquecento altri milioni di persone seguirono Albert Gitchell in infermeria». Gli Stati Uniti erano entrati in guerra undici mesi prima: nell’autunno del 1917 «decine di migliaia di ragazzi provenienti dalle zone rurali del Paese raggiunsero i diversi campi di addestramento dell’esercito per unirsi alle American Expeditionary Forces (Aef), il contingente militare diretto in Europa sotto la guida del generale John “Black Jack” Pershing». Nel marzo 1918 fu l’episodio di Camp Funston, del quale abbiamo detto. In aprile, l’influenza era già epidemica nel Midwest, nelle città della costa orientale dove i soldati si imbarcavano e nei porti francesi in cui sbarcavano. A metà aprile raggiunse le trincee del fronte occidentale. Di lì si estese a tutta la Francia, alla Gran Bretagna, all’Italia e, per ultima, alla Spagna dove, però, nel giro di tre giorni furono contagiati due terzi dei madrileni, tra cui il re, il primo ministro e quasi tutti i membri del governo. Forse fu per questo che l’influenza venne ribattezzata dal nome del Paese di Cervantes"..."Nella capitale spagnola era in cartellone nel maggio del 1918 una commedia che conteneva una canzonetta destinata ad essere immediatamente assai popolare, Il soldato napoletano e fu con quel nome che venne ribattezzato il male. Un importante medico, Luis Ibarra, ricondusse gli effetti del «soldato napoletano» a un «accumulo di impurità nel sangue dovuto all’incontinenza sessuale»: tutta colpa degli «eccessi di libidine» che avrebbero causato «uno squilibrio degli umori». Ma le commissioni sanitarie pubbliche intuirono che la malattia si diffondeva nei luoghi affollati e vietarono gli assembramenti. Il vescovo di Zamora, Alvaro y Ballano, la prese come una disposizione anticlericale, ribadì che la malattia era dovuta «ai nostri peccati, alla nostra ingratitudine, a causa dei quali si è abbattuto su di noi il braccio vendicatore della giustizia eterna» e convocò un gran numero di fedeli per somministrar loro la comunione nella chiesa di San Esteban. Il popolo accorse (anche se per fortuna non nelle quantità sperate) con in testa il sindaco e altri notabili. Ballano descrisse quella giornata come «una delle vittorie più significative mai ottenute dal cattolicesimo». Il tasso di mortalità, a Zamora, crebbe a dismisura. Ma la folla dei fedeli continuò ad accorrere, adesso sì sempre più numerosa. L’epidemia a questo punto fu inarrestabile. Le autorità provinciali furono costrette a prendere la decisione di non far più suonare le campane come tributo ai defunti, dal momento che «suonando di continuo spaventavano la gente». Poiché, poi, ai tempi della Grande guerra, la Spagna era un Paese neutrale, la stampa non subiva nessuna censura: fu per questo che i giornali poterono diffondere puntualmente le notizie relative all’epidemia provocata dal «passaggio del soldato napoletano». Francesi, inglesi e americani «ignorando che la malattia era nei loro Paesi da molto più tempo, con la complicità dei loro governi cominciarono a chiamarla “influenza spagnola”». Dopodiché tutti i Paesi che erano lontani dal teatro della guerra accusarono qualcun altro di essere all’origine della malattia. In Senegal fu l’«influenza brasiliana». In Brasile, la «tedesca». I danesi lo chiamarono il «male del sud». I polacchi la «malattia bolscevica». I persiani diedero la colpa ai britannici. A Tokyo misero sotto accusa i lottatori: poiché il primo focolaio si sviluppò ad un torneo di lotta giapponese, la soprannominarono «influenza del sumo». I medici tedeschi ricevettero l’ordine di minimizzare, attribuendola a malati immaginari e la chiamarono «la pseudoinfluenza». Poi quando ci si rese conto che non si trattava di epidemie locali ma di un’unica pandemia globale, fu adottato il nome che le avevano dato i Paesi vincitori della guerra e la si chiamò «spagnola». «Un falso storico rimasto scolpito nella pietra», sentenzia la Spinney".



Toby Saul, National Geographic
 
ricorda che "L’influenza uccideva le sue vittime con una rapidità incredibile. Negli Stati Uniti abbondavano le storie su persone che si svegliavano malate e morivano lungo il tragitto per andare al lavoro. I sintomi erano raccapriccianti: i pazienti presentavano febbre e difficoltà a respirare. A causa della carenza di ossigeno, i loro volti assumevano un colorito bluastro. L’emorragia riempiva i polmoni di sangue, provocando vomito e sanguinamento dal naso e facendo alla fine soffocare le persone nei propri fluidi. Come già tantissime altre forme influenzali prima di lei, la Spagnola colpiva non solo le persone molto giovani e molto vecchie, ma anche adulti sani tra i 20 e i 40 anni. Il fattore principale nella diffusione del virus fu, naturalmente, il conflitto internazionale, giunto all’epoca alle sue fasi finali. Gli epidemiologi discutono ancora oggi delle sue origini esatte, ma in molti concordano nel dire che sia stato il risultato di una mutazione genetica, forse avvenuta in Cina. È chiaro, in ogni caso, che questa nuova forma influenzale si diffuse a livello globale grazie al massiccio e rapido movimento di truppe nel mondo. La drammaticità del conflitto finì inoltre per mascherare i tassi di mortalità insolitamente elevati del nuovo virus"..."La pandemia non risparmiò praticamente alcuna parte del mondo. In Italia, secondo l’Istituto centrale di statistica, solo nel 1918 morirono circa 300mila persone. In Gran Bretagna morirono 228mila persone; negli Stati Uniti circa mezzo milione; in Giappone 400mila. Le Samoa Occidentali (oggi Samoa), nel Pacifico Meridionale, persero il 23,6 per cento della popolazione. I ricercatori stimano che, nella sola India, le morti abbiano raggiunto una cifra tra i 12 e i 17 milioni. I dati sul numero dei decessi sono vaghi, ma in generale si calcola che la mortalità sia stata tra il dieci e il venti per cento dei contagiati. I campioni prelevati nel 1997 da Johan Hultin alla donna di Brevig Mission servirono a far meglio comprendere agli scienziati come i virus influenzali mutano e si diffondono. Grazie ai medicinali e a una migliorata igiene pubblica – oltre alla presenza di istituzioni internazionali come l’Organizzazione mondiale della sanità –, la comunità internazionale si trova oggi molto avvantaggiata di fronte alla minaccia di una nuova epidemia. Gli scienziati, comunque, sanno che una mutazione letale potrebbe avvenire in quasiasi momento: a un secolo di distanza dalla madre di tutte le pandemie, i suoi effetti su un mondo affollato e interconnesso sarebbero devastanti".



In conclusione le similitudini tra la storia di 100 anni fa raccontata e quella che stiamo vivendo in questo particolare 2020 ci ridimensionano. Gli uomini che pensavano di essere stati catapultati nell'era tecnologica si debbono ricredere. In fondo siamo usciti appena dal '900, il secolo buio, dove sono state realizzate le peggiori armi di distruzione di massa e dove si è inquinato più che in tutti gli altri secoli precedenti... Le foto e le testimonianze riportate mi inducono a pensare che non sono tanto diverso dai miei nonni. 
E come loro, forse e purtroppo, i sopravvissuti dimenticheranno presto. E tutto si ripeterà.




In questo post ho utilizzato stralci di articoli comparsi sui giornali menzionati nel post stesso. Al nome del giornalista è il link all'articolo stesso.
Le foto sono state recuperate sul web. Se alcune di esse fossero coperte da Diritti di Autore o Copyright sono pronto a rimuoverle.
Grazie.


giovedì 15 gennaio 2015

ST PAUL & THE BROKEN BONES

Giovane gruppo musicale dell'Alabama che ho conosciuto in una recente puntata del David Letterman Show dove spesso suonano in chiusura ottime band.

Settétto formatosi nel 2012, ad oggi un ep ed un cd, ci travolgono con un ritmo soul e blues accompagnati dalla voce speciale di Paul Janeway.

Si fanno conoscere inizialmente per registrazioni dal vivo ( il concerto è sempre la migliore scuola!) finché un produttore li nota e può uscire il loro primo cd "Half the City".

La presentazione sopra le righe di Letterman, la presenza scenica di Janeway che ricorda John Belushi in Blues Brothers, ed anche alcune chicche sulla sua vita trovate sul sito del gruppo ( fino a 18 anni cresciuto a pane e gospel nella chiesa della piccola cittadina dove viveva), mi hanno convinto ad ascoltare tutto ciò che ho potuto trovare in giro. Ed ho fatto più che bene!!
Consiglio soprattutto i live su Spotify!